Hanno taciuto per mesi, mentre il mondo del cinema deflagrava con botto assordante, spargendo i cocci dello schianto ovunque. E impuniti sporcaccioni cadevano come birilli. E donne di ogni età e di ogni mestiere, non più solo star di Hollywood, uscivano dal silenzio e dicevano con voce ferma quello che fino al giorno prima era troppo sconveniente o inutile o addirittura rischioso confessare, perché il passaggio da vittima a complice era questione di uno sputo. E si levavano le grida dei sostenitori e dei detrattori, e iniziava la spunta dei se e dei ma, e si perdevano le sfumature. Dimenticando che le rivoluzioni sono monocromatiche per natura, sennò si annacquano e perdono vigore. Ci sarà tempo dopo per far emergere le nuance.

Dissenso comune, la lettera-manifesto delle attrici italiane

Hanno aspettato non perché non avessero cose da dire, ma perché per dirle bene le cose ci vuole tempo e perché a volte è più proficuo e saggio aspettare, meditare su ciò che si vuole comunicare e come, misurando le parole, scegliendole con cura, piuttosto che buttarsi nella mischia tanto per fare. Però alla fine hanno detto la loro, le attrici italiane, firmando insieme a registe e scrittrici una lettera-manifesto, Dissenso comune, da consegnare ai giornali. Per esprimere solidarietà piena alle colleghe vittime di abusi - ché da quegli abusi "con modi e forme diverse" nessuna è immune-– e precisare che il malcostume non è perversione del singolo ma "sistema". Ed è contro quello che bisogna lottare. Contro la cultura della molestia come pratica ordinaria e sdoganata, l'abitudine a tollerarla come se fosse una cosa normale. O ci stai o sei fuori.

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Cristiana Capotondi, Kasia Smutniak e Alba Rohrwacher, alcune delle attrici che hanno aderito a Dissenso comune.

In tutto 124 firme, raccolte nell'arco di due mesi di incontri e confronti, per riscrivere da capo le regole che governano il rapporto tra i sessi nel mondo del lavoro, qualsiasi lavoro. Una presa di posizione necessaria, per dar voce anche a tutte coloro che non hanno la visibilità sufficiente per farsi ascoltare. «La disuguaglianza di genere negli spazi di lavoro rende le donne, tutte le donne, a rischio di molestia poiché sottoposte sempre a un implicito ricatto. Succede alla segretaria, all'operaia, all'immigrata, alla studentessa, alla specializzanda, alla collaboratrice domestica. Succede a tutte», si legge nel documento. Per questo non si può più stare zitte. E queste 124 voci sono diventate un urlo che sta montando di giorno in giorno, raccogliendo l'adesione di fette sempre più grandi del mondo dello spettacolo e dell'informazione.

Dopo le parole ci vogliono i fatti

Si poteva agire prima è vero, fare muro intorno a chi nel pieno dello scandalo Weinstein ha avuto il coraggio di fare un passo avanti, lasciandosi travolgere e sbatacchiare dall'onda lunga di questo tsunami, ma se permettiamo che il rumore delle polemiche sovrasti il fischio alle armi che è stato lanciato, questa guerra è persa in partenza. Prendiamolo come un punto d'inizio. Partiamo da qui per fare qualcosa che sia davvero grande: cambiare il modo di pensare, le consuetudini sbagliate, i luoghi comuni che ci fanno ripetere all'infinito gli stessi errori, rendendo "accettabile" ciò che invece non lo è. Dopo le attrici, anche le giornaliste hanno firmato l'appello, perché la cultura si può cambiare solo se si fa corretta informazione e si raccontano le cose come stanno davvero. Ora aspettiamo le politiche, le imprenditrici, e tutte coloro che possono concretamente, con provvedimenti reali, fermare le molestie nei luoghi di lavoro. Dopo le parole ci vogliono i fatti. E ci vogliono anche gli uomini. Questa non è una nostra battaglia, è una battaglia di tutti. E loro non possono restare a guardare, rannicchiandosi nella parte di "nemici" o di semplici spettatori. Purtroppo sono ancora poche le voci maschili che si sono levate per dire che il progresso della società passa anche da qui e che è interesse di tutti ridisegnare i ruoli, riscrivere il patto tra i sessi. È la sfida del secolo. Non possiamo perderla.

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